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Il nostro Alessandro Nidi ancora sul podio del “Dardanello Giovani”

19 dicembre 2020 | 19:56
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Il nostro Alessandro Nidi ancora sul podio del “Dardanello Giovani”
Alessandro Nidi (5° da sinistra) alla premiazione della prima edizione del 'Dardanello Giovani' sul podio del Giro d'Italia, all'arrivo di Prato Nevoso.

Il giornalista di Cuneo24 si classifica nuovamente al terzo posto del prestigioso concorso giornalistico con un toccante ricordo di Kobe Bryant, cestista americano scomparso in un incidente aereo lo scorso 26 gennaio

Grazie al terzo posto conquistato dal nostro giornalista Alessandro Nidi c’è anche un po’ di Cuneo24 sul podio del concorso giornalistico “Dardanello Giovani” 2020 contraddistinto, nella sua terza edizione, da un autentico boom di partecipanti. Una “medaglia di bronzo” che Nidi ha conquistato con un toccante ricordo di Kobe Bryant, cestista americano scomparso in un incidente aereo lo scorso 26 gennaio.

“Un’edizione che stupisce e matura – si legge in una nota degli organizzatori – anche nell’anno della pandemia Covid-19. L’intento di coltivare le giovani promesse del giornalismo, nel nome del maestro Piero Dardanello, giunge al traguardo nonostante il tema del bando rappresenti tuttora una chimera: il 2020 doveva essere l’anno dei Giochi di Tokyo, per questo i talenti sono stati chiamati a raccontare ‘Emozioni e storie olimpiche’. Con il rinvio ormai deciso da mesi, la produzione degli elaborati non si è interrotta, offrendo una piacevole sorpresa: record di partecipanti, con iscrizioni in arrivo da nord e centro Italia. Un premio divenuto nazionale. Dal racconto del mito di Kobe Bryant ai volteggi di Vanessa Ferrari sino al lampo di Usain Bolt”.

L’iniziativa, resa possibile dall’associazione ‘Piero Dardanello’, ha coinvolto giovani da tutto il Paese (21-30 anni), oltre ad una speciale categoria dedicata agli studenti del Cuneese (16-20 anni). Gli elaborati sono stati valutati da una giuria presieduta da Xavier Jacobelli (direttore di ‘Tuttosport’) e composta da Roberto Beccantini (presidente onorario del premio ‘Dardanello’), don Corrado Avagnina (direttore de ‘l’Unione Monregalese’), Massimo Mathis (capo della redazione di Cuneo de ‘La Stampa’) e Gianni Scarpace (condirettore di ‘Provincia granda’).

Il concorso, promosso in stretta sinergia con un importante attore del territorio quale la Banca Alpi Marittime, sponsor unico sin dalla prima edizione, amplia orizzonti e offre importanti spunti culturali: «Questa edizione del premio – dichiara Giovanni Cappa, presidente della Banca Alpi Marittime – ha dato un segnale forte ai nostri giovani. La cultura non si ferma mai, neanche in un periodo difficile come quello che abbiamo e stiamo attraversando; come banca della comunità, siamo orgogliosi di poter trasmettere questo messaggio alle nuove generazioni».

Podio in rosa per la sezione dedicata agli studenti cuneesi, dove si impone Giorgia Marenco (Liceo Sportivo Mondovì), mentre seconda è giunta Anna Cesario (Liceo Linguistico Mondovì) e terza Gaia Dotta (Liceo Sportivo Mondovì). Nella categoria giovani, in cui è stato possibile rispondere al meglio alla dimensione nazionale del concorso con diversi partecipanti da fuori Piemonte, il primo premio è stato assegnato al monregalese Luca Calò“La velocità di Usain Bolt fra visioni, emozioni e sentimenti. Bella idea. Si legge di corsa”: il commento di Roberto Beccantini ben fotografa l’intuizione dell’autore. Un articolo interamente dedicato al primatista giamaicano, un viaggio racchiuso in tre risposte, date da 9 amici su 10 alla domanda: “A cosa pensi se ti dico Usain Bolt?”, ovvero 100 metri, velocità, Giamaica. Al secondo posto, l’esaltazione della ‘Generazione di fenomeni’, in arrivo non a caso dall’Emilia: Mattia Cocchi (San Felice sul Panaro, Modena) ripercorre il viaggio di Bernardi, Zorzi, Cantagalli, Lucchetta, Gardini, Papi, Tofoli e compagni sotto la guida di Julio Velasco. Terza posizione per il vicese Alessandro Nidi, nuovamente sul podio con l’emozionante ricordo di Black Mamba.

«La scrittura vuole e deve liberare i sentimenti – sottolinea Paolo Cornero, vicepresidente dell’associazione ‘Piero Dardanello’, primo artefice del riconoscimento e direttore del percorso didattico nelle scuole – non a caso, quando le dita scorrono sulla tastiera, i sogni prendono vita. Siamo orgogliosi di poter consegnare il terzo ‘Dardanello Giovani’, goccia di vita per i giovani talenti del giornalismo. Come ha sottolineato Luca Calò nel suo pezzo, i campioni dello sport restano eterni, non solo per i titoli vinti, ma anche per i ricordi e le emozioni che offrono agli appassionati: tutti noi ben ricordiamo cosa stavamo facendo nel 1982 o nel 2006. Grazie ai tanti ‘Pablito’, la vita si riempie di sentimenti: lacrime di gioia e dolore, versate per persone a volte mai conosciute dal vivo, ma eterne nella nostra memoria. Per sempre».

L’ufficializzazione dei vincitori del ‘Dardanello Giovani’ è anche propizia per tracciare un bilancio dell’anno che è stato: «Terminiamo il 2020 con una certezza – sono le parole di Sandro Dardanello, presidente dell’associazione culturale nata in ricordo dell’ex direttore di ‘Tuttosport’ – ovvero con la volontà di lasciarci alle spalle dodici mesi particolarmente difficili. Difficoltà che pure non hanno scalfito la nostra passione: ieri con il premio ‘Dardanello’ ed il premio ‘Gasco’ (la cui cerimonia, nel mese di novembre, è andata in scena rigorosamente a distanza, beneficiando delle più moderne tecnologie, ndr), oggi con il ‘Dardanello Giovani’ ribadiamo la volontà di guardare avanti. Colgo l’occasione per porgere, a nome dell’associazione che ho l’onore di presiedere, gli auguri di buon Natale, con l’auspicio di poter riconoscere ai vincitori dei premi il giusto omaggio nel 2021, nel salone d’onore del Circolo sociale di Lettura di Mondovì». Orizzonte sul futuro, dunque: una promessa ed una speranza.

L’ARTICOLO CHE È VALSO AD ALESSANDRO NIDI IL 3° POSTO AL DARDANELLO GIOVANI 2020

L’ULTIMO CANESTRO – KOBE BRYANT E QUELLA PALLA A SPICCHI CHE PROFUMA D’ETERNO

Black Mamba non c’è più, ma la partita contro la morte l’ha vinta lui: ha infranto le barriere di Re Crono e acceso una luce fra le tenebre dell’oblio. Sarà, per sempre, il basket.

La storia, sin dall’antichità, è ritenuta maestra di vita, in quanto contenitore di esperienze passate dal quale attingere a piene mani, seppur con il dovuto criterio. La storia, però, non è un libro già
scritto e non è figlia di un unico autore. Le parole che campeggiano sulle sue pagine sono state tracciate da penne diverse, impugnate da donne e da uomini capaci di azzerare spazio e tempo e
avvicinare la leggenda.

La storia, poi, sa anche essere eterna: non conoscerà mai il proprio epilogo e offrirà a chiunque l’opportunità di redigere un nuovo capitolo. Un onore e un onere riservati a chi il talento lo possiede, certo, ma non si limita a fregiarsene: lo allena, lo rinforza, lo irrobustisce, mosso da un’abnegazione e da una determinazione quasi olimpiche. D’altro canto, se tu non credi in te stesso, chi dovrebbe farlo? Un interrogativo retorico pronunciato più volte da Kobe Bryant, bandiera dei Los Angeles Lakers, compagine cestistica a stelle e strisce militante in NBA, il
massimo campionato di pallacanestro americano. Quel ragazzo venuto da Philadelphia e cresciuto tra l’Italia e gli Stati Uniti ha lavorato su se stesso con ossessione maniacale, carpendo i segreti del mestiere dal padre Joe, professionista della palla a spicchi che, a un certo punto della sua carriera, decise di abbracciare l’avventura sportiva nel nostro Paese, ove ha indossato le casacche di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggiana. Per affrontare al meglio quest’esperienza tricolore, portò con sé anche la sua famiglia e Kobe ebbe così modo di apprendere la lingua italiana e praticare sport.

Quale? Il basket, ovviamente. Ma anche il calcio, dal quale è rimasto folgorato, sviluppando una predilezione particolare per il Milan di Marco Van Basten. Il pallone, però, ha sempre preferito
ammaestrarlo con le mani e così, al rientro negli USA, effettuò la sua scelta di vita, rivelatasi più che mai azzeccata: i Lakers lo prelevarono nel 1996 dagli Charlotte Hornets, i quali a loro volta lo
avevano appena selezionato al draft NBA. Subito dopo lo sbarco di Bryant in California, il team gialloviola comprese di aver piazzato il colpaccio: quel giovane non era come tutti gli altri, aveva
qualcosa in più, e nei vent’anni di militanza nella compagine di Los Angeles si è ben capito di cosa si trattasse.

Quel ragazzo non era semplicemente bravo: quel ragazzo era il basket. Non è questa la sede per abbandonarsi a gazzarre da cortile, utili (eufemismo) a stabilire se Kobe sia stato il giocatore più forte di tutti i tempi. Michael Jordan, Allen Iverson, Kevin Garnett, James LeBron, Shaquille O’Neal, Earvin “Magic” Johnson e tanti altri potrebbero contendergli lo scettro di sovrano assoluto della pallacanestro. Le statistiche, però, non mentono mai e quelle del numero 8 (prima) e 24 (poi) dei Lakers costituiscono un vero e proprio menù pantagruelico. Fra i numeri più significativi vi sono i 48.637 minuti disputati in NBA, l’equivalente di 811 ore di gioco ufficiali, con 33.643 punti messi a referto; i cinque anelli NBA conquistati; i due titoli individuali agguantati come miglior giocatore della finale; le due medaglie d’oro conseguite con la nazionale statunitense alle Olimpiadi (Pechino 2008 e Londra 2012). Ah, la tenzone a cinque cerchi: fu quasi in contemporanea con la prima delle due finali vinte dagli Stati Uniti d’America che nacque la leggenda di Black Mamba. Procediamo con ordine: l’atto conclusivo della rassegna in landa cinese, quell’anno, mise di fronte gli USA di Kobe Bryant e la Spagna di Pau Gasol, all’epoca compagni di squadra a Los Angeles e reduci da un titolo nazionale sfumato contro la corazzata Boston Celtics.

Il lungo catalano, secondo Bryant, non diede il massimo in quelle sei gare che composero la serie finale, e il 18 volte All-Star decise di fargliela in qualche modo pagare. Pochi istanti dopo la palla a
due, Bryant corse verso il blocco di Gasol, provocando la caduta di quest’ultimo sul parquet, come a volergli ricordare che in partite come questa serve grinta. Una metamorfosi mentale che Black
Mamba aveva già compiuto da tempo e che lo indusse ad affibbiarsi in maniera del tutto autonoma questo stravagante appellativo, che l’avrebbe accompagnato per la sua intera esistenza e che
coincide con il nome del più veloce serpente velenoso esistente in Africa, lungo mediamente 2,5 metri e dalla cavità orale totalmente nera (ecco perché black). Letale come il rettile a cui si è
ispirato, Kobe ha annichilito gli avversari a più riprese a suon di movimenti fenomenali, traiettorie mortifere e contrarie a qualsiasi legge della fisica, imparando, col tempo, a resistere al peso della
pressione, ma non al richiamo della perfezione, per lui simile al canto delle sirene a cui soltanto un uomo dal multiforme ingegno seppe non piegarsi (leggasi Ulisse). Una perfezione inseguita in ogni incontro e in ogni sessione di allenamento e declinata in una moltitudine di sfaccettature talvolta impossibili da cogliere a occhio nudo: dalla condizione fisica all’approccio mentale, dalla cura dei dettagli al rispetto degli orari, Bryant ha veleggiato per due decenni fra la normalità quotidiana e la sregolatezza tipica dei talenti, senza uscirne ridimensionato.

Black Mamba è diventato leggenda ben prima di dire addio al professionismo, salutato peraltro con una straziante standing ovation coast to coast, durata un’intera stagione e diffusasi da un’arena all’altra della nazione statunitense. Un plebiscito incontrovertibile per un autentico top player, in grado di esercitare un magnetismo ammaliante, di mietere proseliti in ogni continente, di far innamorare chiunque della palla a spicchi, anche chi a malapena conosce le regole di una disciplina fatta di (rin)corse e rimbalzi, di visione di gioco e di rapidità d’azione, di acume tattico e cinismo. In molti si sono domandati come sarebbe stata la pallacanestro senza Kobe Bryant e come sarebbe stato Kobe Bryant senza la pallacanestro: purtroppo, non c’è stato il tempo sufficiente per scoprirlo. Come è noto, l’ex stella dell’NBA ha perso la vita il 26 gennaio 2020 in un terribile incidente nei cieli di Calabasas, città della contea di Los Angeles che stava sorvolando a bordo del suo elicottero privato, su cui viaggiavano anche la figlia tredicenne Gianna-Maria Onore (promessa del basket femminile) e altre sette persone, tutte perite nello schianto provocato dalla scarsa visibilità imputabile alla nebbia.

Un dramma che ha distrutto una famiglia, che ha sconvolto l’intero universo sportivo. Nessuno voleva credere alla notizia e in molti, almeno all’inizio, hanno pensato, forse sperato nell’ennesima fake news di cattivo gusto. No. Tutto, terribilmente, vero. Kobe non c’è più, ma in fondo è come se non se ne fosse mai andato. La sua tragedia, che per dinamica ricorda da vicino quella del Grande Torino di Ernő Egri Erbstein, non ha spento il suo ricordo: l’ha acuito, l’ha alimentato, l’ha rinvigorito. Black Mamba, proprio come Valentino Mazzola e compagni, ha azzannato la morte, ha infranto le barriere di Re Crono, ha acceso una luce fra le tenebre dell’oblio. Le sue immagini di uomo e di campione incarnano un’eredità dal valore inestimabile, da serbare e da veicolare, da fare propria e di cui andare profondamente fieri. Quel ragazzo venuto da Philadelphia non è esistito invano: pur inconsapevolmente, attraverso la sua spontaneità, il suo carisma, le sue giocate, ha offerto a tutti noi un sogno ad occhi aperti, dimostrandoci che ogni cosa al mondo è mossa dalla passione e che, se questa è davvero presente, non vi sono ostacoli insormontabili. “Quando ami qualcosa, tornerai sempre da lei”, era solito asserire. No, non ci sarà mai un basket senza Kobe Bryant. Perché Kobe Bryant è il basket. E lo sarà in eterno.