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Cronaca
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La vicenda degli immigrati sfruttati nelle Langhe

21 giugno 2020 | 14:00
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La vicenda degli immigrati sfruttati nelle Langhe
immagine di repertorio

Ricostruita la storia dei 30 immigrati sfruttati da un’organizzazione che utilizzava i metodi del caporalato. E’ la seconda vicenda simile nel giro di due mesi portata alla luce dalle indagini della Guardia di Finanza.

I 30 i braccianti da cui sono partite le indagini della Guardia di Finanza di Canelli erano sfruttati da un’organizzazione gestita da Brizida Gega, 46 anni, residente a Mombercelli, che utilizzava il metodo del caporalato. La donna ha precedenti penali e nel 2019 la sede della cooperativa attraverso la quale realizzava i suoi loschi traffici che interessavano l’astigiano e zone del cuneese, era a Santo Stefano Belbo.

Le indagini delle Fiamme Gialle sono partite da lontano, dalla vendemmia 2019, quando erano stati notati movimenti sospetti da parte di richiedenti asilo, ragazzi di 20-25 anni che arrivavano col favore delle tenebre a Canelli e la mattina successiva venivano portati con dei furgoni nelle vigne.  Il trattamento a cui venivano sottoposti era condito di minacce, violenze fisiche e psicologiche che riservava loro un uomo, albanese pure lui, “collaboratore” della Gega che risultava essere la titolare della cooperativa che faceva firmare dei contratti che rendevano, all’apparenza, meno nero il lavoro prestato.

In pratica il contratto non era altro che un documento che riportava che il bracciante, per il periodo  da agosto a ottobre, per qualche giorno e non consecutivo, sarebbe stato impiegato nella vendemmia. La realtà era diversa, con un impiego sette giorni su sette, per dodici ore al giorno. E a piazzare i braccianti nelle aziende agricole provvedeva un altro albanese, che aveva i contatti “giusti” sul territorio.

Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Francesca Dentis, hanno portato a identificare due cascine fatiscenti dove i 30 braccianti venivano stipati, fatti dormire per terra, accontentandosi di ciò che la stessa cooperativa vende loro, ovviamente a caro prezzo, per poter mangiare. E i lavoratori dovevano pagare pure per il loro trasporto al lavoro e per la sistemazione ai limiti dell’umano, con trattenute da quanto guadagnavano nei campi. Le minacce erano continue sia per chi protestava, per chi chiedeva più soldi o chi si lamentava delle condizioni di vita. Nella migliore delle ipotesi venivano allontanati senza essere pagati.

Le indagini hanno messo in risalto il clima violento in cui i braccianti venivano sfruttati e gli approfondimenti sulla figura della Brizida Gega hanno permesso di ricostruirne gli spostamenti e il giro d’affari, ovviamente in nero, con utili per 75mila euro in pochi mesi.

Alla fine la donna viene rintracciata a Mombercelli, dove stava per ricominciare la sua “opera” con una nuova sede legale. E così, nel giro di soli due mesi viene operato il secondo arresto di una donna albanese con l’accusa di caporalato.