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Nicolò Rosso, un cuneese testimone dell’Amazzonia

21 aprile 2020 | 14:20
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Nicolò Rosso, un cuneese testimone dell’Amazzonia

Una vita vissuta allo scopo di dare voce, attraverso le immagini, a quello che Nuto Revelli definì il mondo dei vinti. Ma si tratta di un mondo dall’altra parte del nostro mondo, dove una vita vale meno del tempo necessario a toglierla. Nicolò Rosso, fotoreporter, e i suoi scatti raccontati a cuneo24

Con il progetto “Exodus” è risultato tra i vincitori del World Press Photo 2020, il più importante concorso di fotogiornalismo al mondo. Le sue fotografie sono apparse sulle più prestigiose riviste internazionali e la sua vita è intrisa di avventura e di grande vicinanza a drammi umani che a noi spesso sono sconosciuti. Parliamo di Nicolò Rosso, fotoreporter nato a Busca ma ormai cittadino del mondo, al quale abbiamo potuto rivolgere alcune domande.

Perché l’America Latina come campo d’azione e di vita?

L’America Latina mi ha sempre attratto, fin da bambino. Quando avevo 19 anni feci il mio primo viaggio oltreoceano: atterrai in Nicaragua e viaggiai per tutto il centro-america. Il senso di libertá che provai in viaggio fu come un seme che germogliando si trasformó in un richiamo a tornare in questo continente, per conoscerlo piú a fondo. Il desiderio di viaggiare era diventato una necessitá.

Finita l’universitá, ho fatto Lettere a Torino, lavorai come aiuto-cuoco in un rifugio di montagna e con quei risparmi andai in Messico, e dal Messico verso sud fino ad arrivare in Colombia su un mercantile, su cui mi ero imbarcato a Panama con un amico e compagno di viaggio.

Nel 2011, feci un altro viaggio in Colombia, giá con l’idea di iniziare a scattare fotografie con un proposito che andasse oltre la semplice registrazione dei momenti del mio viaggio. Senza cercare una storia in particolare, finii per vivere durante alcuni mesi nel Putumayo, da dove ti scrivo ora. É una regione del bacino amazzonico colombiano, dove le Ande incontrano la foresta piú grande del mondo.

Qui conobbi un Taita, un medico tradizionale del popolo indigeno Kamentza. Nacque un’amicizia meravigliosa e con il tempo la sua é diventata come una seconda casa per me. Da sempre ho sentito un’attrazione verso il mondo delle piante, dello sciamanesimo, e con questo incontro un altro seme era stato piantato. C’é un prima e un dopo, nella mia vita.

Tornai in Italia, dopo quel viaggio, e iniziai a fare fotografia di matrimoni, nel tentativo di imparare ad usare la macchina fotografica. Ovviamente dovevo fare anche altri lavori, perché la fotografia ci mette un po’ a pagare le bollette. Cosí ho lavorato come aiuto cuoco, decoratore, lava piatti, scaricavo bagagli all’aeroporto di Levaldigi. Nel frattempo seguivo workshops e masterclass con alcuni grandi fotografi di reportage in giro per l’Europa, e riuscii a pubblicare alcune delle foto che avevo scattato in Colombia su alcune riviste.

Nel 2014, tornai a vivere nel Putumayo, continuando il percorso personale che avevo iniziato con il Taita, anni prima. Il 2016 fu l’anno in cui iniziai seriamente a scattare fotografie e a lavorare come fotogiornalista. Iniziai un progetto ne La Guajira, una penisola desertica all’estremo nord del paese, dimora degli indigeni Wayuu e di una delle piú grandi multinazionali del carbone, che estrae il minerale in una gigantesca miniera a cielo aperto. Ho documentando le conseguenze dell’estrazione di carbone in termini di malnutrizione, mancanza di accesso all’acqua potabile, inquinamento e desertificazione. Tuttora continuo a lavorare a questo progetto. Quel lavoro é stato pubblicato da riviste e quotidiani in tutto il mondo, e poco a poco ho iniziato a ricevere incarichi in Colombia, Centro-America e piú recentemente anche in altre parti del mondo.

L’anno scorso sono stato per alcuni mesi in India, per esempio. Ma il mio “campo d’azione”, per usare le tue parole, é la Colombia. Sento una responsabilitá verso le storie che racconto e i loro protagonisti e sento che ho ancora molto lavoro da fare per comprendere e tradurre visualmente le situazioni che documento. Sentirei di lasciare il lavoro incompleto, andando a cercare altre storie.

C’è chi ha provato il mal d’Africa. Esiste anche un mal di Sudamerica?

Credo di sí. Immagino che sia uno stato d’animo unico e diverso per ogni persona. Per me é stato un “mal di selva”, inizialmente. Ora, come ti dicevo, è un senso di responsabilitá verso le storie che racconto. Mi interessa la fotografia come messaggio e come ereditá, come documento. Per questo i miei lavori sono a lungo termine, e abbracciano un arco di tempo di anni di lavoro.

Una fotografia equivale a interi capitoli di un libro, quando riesce a cogliere emozioni, sentimenti, dolore, felicità. Come nascono i tuoi scatti?

I miei scatti nascono con il tempo. E il tempo è la chiave per costruire relazioni forti con le persone e generare intimità e fiducia. Non sono un “fotografo invisibile”. Riesco a lavorare bene quando divento parte della comunità o del gruppo di persone che fotografo. Mi interessa che i protagonisti delle fotografie sappiano chi sono e perché sono lí. Abituandosi alla mia presenza poi le persone si dimenticano della macchina fotografica. E cosí che cerco di ottenere scatti genuini, veri.

Oltre a descrivere e raccontare un’azione, per me é importante cercare di trasmettere anche il sentimento del momento, l’emotivitá non solo della situazione, ma anche della relazione che si é creata con le persone. In questo modo una fotografia si carica di quella sinenergia, e nel migliore dei casi puó diventare un esempio, o un’ispirazione, per ogni tipo di relazione umana.

Sei arrivato terzo nella categoria dedicata a “Contemporary issue, storie” al World Press Photo 2020, il più importante concorso di fotogiornalismo al mondo. Cosa hai provato nel vedere riconosciuto il tuo lavoro?

Ho provato felicitá. Perché lo vedo come un riconoscimento al duro lavoro, a tanto tempo dedicato a un tema che per me è importante, e a tanti sacrifici. Ho provato un senso di rivalsa, perché molti editori non volevano pubblicare questo lavoro. Ho iniziato a lavorare sulla migrazione venezuelana in incarico per diverse riviste e quotidiani. Ma ogni volta gli incarichi erano troppo brevi per documentare a fondo, e quindi per comprendere, le situazioni che si presentavano. Per questo ho deciso di lavorare da solo, con i miei tempi e ritornando piú volte e per lungo tempo alle frontiere, e seguendo i migranti lungo le rotte migratorie per tutto il paese. Il riconoscimento di un World Press Photo è un modo per dare voce e dignità ai migranti. E non solo ai migranti venezuelani, ma ai migranti di tutto il mondo. Ora milioni di persone vedranno quelle immagini e personalmente faró il possibile perché contribuiscano al lavoro di ONG e organizzazioni come UNHCR per portare piú attenzione, e fondi dei governi, sul tema della migrazione.

Il progetto che ti ha portato al premio è intitolato “Exodus” ed è dedicato agli effetti della crisi economica e politica che attanaglia il Venezuela e, in particolare, alla migrazione, l’esodo, dei venezuelani verso la Colombia. Ma non è l’unico scenario di crisi umanitaria che ti sei trovato a documentare. Hai documentato la miseria ma anche la semplicità di popolazioni dimenticate, hai visto la violenza insensata, hai visto all’opera i trafficanti di droga. Non hai mai provato paura?

Realmente, no. Non ho mai provato paura. Anche in situazioni estreme, in un certo senso la macchina fotografica è una barriera, un filtro verso certe realtá violente e di conflitto. Una volta ero con una collega di France24 nel Catatumbo, una delle zone piú violente e militarizzate del paese, quando un convoglio delle Nazioni Unite inizió ad essere bersaglio di un bombardamento da parte di un gruppo armato che controlla il narcotraffico nella regione. Senza neanche pensarci ci siamo ritrovati semplicemente a continuare a fotografare, io, e a filmare, la mia collega. Va detto comunque che sempre, e soprattutto quando si tratta di situazioni di alto rischio, c’é molto lavoro di preparazione alle spalle. Non mi butto tra i sicari dei cartelli di Medellin senza aver preso contatti e ottenuto permesso dai loro capi, per esempio. Trovo molto piú dure le situazioni dove c’é meno azione, ma dove la quiete lascia emergere il dramma della malnutrizione, per esempio. Dalla violenza o da un bombardamento puoi scappare, ma non dalla malnutrizione, dall’inquinamento, dall’abbandono in cui vivono cosí tante persone in tutto il mondo.

I tuoi scatti sono già apparsi su riviste internazionali. A quali sei più legato?

Forse gli scatti a cui sono piú legato sono quelli che non ho mai realizzato. Ci sono situazioni dove scelgo di vivere il momento, e rinuncio alla fotografia. Quelli sono ricordi che hanno la forma e l’aspetto di una fotografia, ma esistono solo nella mia mente. Ovviamente sono molto legato agli scatti che fanno parte delle serie di Exodus premiata al World Press, perché grazie al premio raggiungeranno molte persone. E sono molto legato anche ad alcune fotografie scattate ne La Guajira, perché grazie ad esse una organizzazione decise di prendersi in carico le persone ritratte, che soffrivano di malnutrizione. In questo modo un bambino si salvó, e una giovane donna fu ospitalizzata. Purtroppo lei non si potette salvare, ma la stessa organizzazione decise di occuparsi dei suoi 2 bambini che erano rimasti orfani. Le fotografie che hanno un impatto reale, sono quelle a cui sono piú legato.

Come fotoreporter sei anche testimone di una società che è molto più lontana da noi dei chilometri che ci separano. La tua opera e quella dei tuoi colleghi è allo stesso tempo un grido d’allarme e un invito a non chiudere gli occhi. Senti questa responsabilità?

Sí, certo. Le fotografie sono una delle armi piú potenti che esistano. Non a caso la politica e la pubblicitá fanno dell’immagine il principale strumento di propaganda. La nostra memoria lavora con immagini fisse, non in movimento. Per questo i fotografi hanno una responsabilità enorme. Una fotografia puó penetrare nella memoria collettiva e contribuire a movimenti sociali e addirittura a cambiamenti giá in corso. La fotografia é un documento per i posteri, l’ereditá visuale dei nostri giorni per i nostri figli.

Come vivi e come si vive dove lavori, questa emergenza legata al coronavirus? Anche in questo caso il mondo dei vinti è costretto a vivere diversamente il pericolo dl contagio?

Certo. L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo tutti porta a galla ancora una volta il divario sociale. La maggior parte degli abitanti del mondo vive alla giornata. Lavora oggi per mangiare oggi. La quarantena, il social distancing e il lavaggio costante delle mani sono un privilegio di chi ha una casa, accesso all’acqua potabile e un lavoro che ti garantisce un salario anche se non vai in ufficio. L’educazione online è un privilegio di chi ha accesso a internet, e un computer. In molti paesi del mondo, forse la maggior parte, l’accesso alla salute è privilegio di pochi.
Se da un lato l’emergenza Covid ha paralizzato i moti sociali che erano in corso in America Latina, allo stesso modo potrá essere la causa di nuovi disordini sociali e proteste, perché il rischio è che molte persone si vedano costrette a scegliere tra il contagio, e la fame. In questo momento io sono in Amazzonia, lontano dalle cittá e immerso nella natura. Aspetto.

Marco Garofalo, nel commentare l’edizione 2020 del World Press Photo ha detto di sperare che “i giornali e l’editoria tutta e chiunque sfrutti delle immagini fotografiche per condividere informazioni di vario genere, capiscano quanto il lavoro del fotoreporter non sia solo importante, ma necessario e pericoloso e sottovalutato e sottopagato perché di visibilità non c’è più bisogno, con la visibilità non si parte e non si torna”. Questo premio prestigioso che ti hanno assegnato ha avuto anche un risvolto economico o ti ha dato unicamente l’importante soddisfazione?

Marco ha ragione. Questo è un lavoro che richiede solitudine, e molti sacrifici. Ma allo stesso tempo mi sento di dire che è in questo che si racchiude la sua grazia. Non lo facciamo per soldi, per questo è importante, per questo molto spesso si mantiene una pratica pura, che nasce da un sentimento di umanità. Ben diverso un certo tipo di giornalismo televisivo, in linea con i governi e i poteri dominanti, per esempio. Noi, i fotoreporter freelance, siamo liberi. Ma è chiaro che è un lavoro rischioso e che non si paga un biglietto aereo con la visibilitá, e nemmeno l’affitto. Il World Press Photo offre un premio in denaro ai vincitori dell’immagine dell’anno, e della storia dell’anno. Gli altri premi non prevedono soldi, ma allo stesso tempo la visibilità porta lavoro. Te lo sapró dire meglio tra qualche mese.

Sei nato a Busca, in questa provincia hai iniziato come giornalista in periodici locali. Oggi, a 35 anni, pensi di ritornare in Italia o pensi di continuare sulla strada che hai imboccato?

Sono aperto a quello che la vita mi riserva. Per il momento la mia idea è di costruirmi la mia casa-studio nel bosco, qui in Putumayo, e continuare a lavorare ai miei progetti in Colombia, e ad altre storie in giro per il mondo. In Italia ho amici e famiglia, un gran pezzo della mia vita e ovviamente cerco di tornare ogni volta che mi é possibile. Ma la base la vedo qui.

(Instagram: @nico.filipporosso)