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Incontro governo-parti sociali sulle pensioni

26 gennaio 2020 | 16:07
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Incontro governo-parti sociali sulle pensioni

Tra proposte di ogni genere e aumenti dell’assegno simili a elemosina, continua il confronto governo parti sociali sul tema pensionistico. Prossimo round lunedì 27 gennaio

Domani, 27 gennaio, è previsto il confronto tra governo e parti sociali per la revisione del sistema pensionistico, nell’ottica di un miglioramento della tanto contestata legge Fornero, per modificare la quale saranno impegnate due commissioni instituite dalla legge di Bilancio, quella sui lavori gravosi e quella sulla separazione tra previdenza e assistenza. Ma per aumentare il numero dei pareri , e speriamo non la confusione, entro fine mese verrà nominata una terza commissione formata da esperti a livello nazionale.

Se i sindacati stanno portando avanti l’idea della flessibilità in uscita intorno ai 62 anni o 41 anni di contributi a prescindere dall’età,  il ministero dell’Economia si è limitato a giudicare troppo costosa questa proposta, senza avanzare controproposte ufficiali. Quota 100 resterà in vigore fino al 2021 e nel 2022 tornerebbe in vigore la legge Fornero, così il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha provato a indicare un sistema che preveda flessibilità in uscita a 64-65 anni con ricalcolo contributivo. Rilancio della sottosegretaria al Lavoro Francesca Puglisi, che ha suggerito un’uscita a 64 anni con 35 di contributi, senza ricalcolo né penalizzazioni. Tutto bocciato dai sindacati e allora via al confronto del 27 gennaio, sempre che non salti all’ultimo minuto.  Come si vede è una guerra continua di numeri: 62, 64, 65, addirittura 71 anni per andare in pensione con 35, 41 anni di contributi. In mezzo a tutto ciò ci sono i lavoratori che vengono trattati, anche loro, come numeri da spostare avanti o indietro senza considerare che dietro quei numeri ci sono vite di lavoro e sacrifici.

In questo balletto tra governo e sindacati, con l’Inps a dare il suo contributo a far chiarezza o ad aumentare la confusione, dipende da come la si guardi, ecco che spunta la classica via di mezzo, dove dovrebbe esserci secondo i detti popolari, la virtù: uscita anticipata dal mondo del lavoro a 64 anni invece dei 67 richiesti per la vecchiaia, ma con il calcolo dell’assegno interamente su base contributiva. L’assegno che verrebbe erogato sarebbe ridotto in media del 10/15%. Questo sarebbe il piano del governo. Quindi, mentre in Europa si va in pensione a 63 anni e, soprattutto,  senza penalizzazioni, in Italia a 67 e con un sistema che non aiuta a dare sicurezza alle nuove generazioni per le quali è previsto  come assegno pensionistico al massimo la metà dell’ultimo stipendio. Sempre che nel frattempo i nostri giovani abbiano trovato un lavoro, ovviamente…

Come abbiamo potuto sentire da Armando Dagna della Uil, durante la rubrica “Sportello pensioni”  per sostenere o addirittura migliorare le misure che consentono la flessibilità in uscita dal lavoro, è necessario anzitutto ridurre i costi attuali, scorporando dall’Inps tutte le uscite non legate alla previdenza, perché dei costi dell’assistenza deve farsi carico lo Stato.

In attesa che la confusione che accompagna questo tema cruciale per il governo e ancor più per i lavoratori, specie quelli prossimi, o almeno sperano, al traguardo della quiescenza, un dato certo per il 2020 c’è: il trattamento minimo è aumentato di soli 2,06 euro. Avete letto bene… Questo modesto incremento (+0.4%), neppure catalogabile come elemosina,  è dovuto alla perequazione automatica, nient’altro che la scala mobile dei bei tempi andati. Fatto sta che nel 2019 si doveva tornare alle regole originarie, quelle del 2001, che non solo erano  più favorevoli ai pensionati, ma che vedevano la rivalutazione applicata con regole più vantaggiose cioè non per un singolo scaglione in base all’importo complessivo della rendita, ma per diversi scaglioni in base alle fasce d’importo della stessa. Si doveva tornare, ma non è successo per via, o colpa, della Legge di Bilancio 2019.

Nella manovra economica 2020 (legge n. 160/2019) è stato promesso che dal 2022 si tornerà al vecchio e più favorevole sistema. Speriamo, perché dopo i marinai gli esperti maggiori in fatto di promesse non mantenute sono proprio i politici. Al momento, in attesa che le buone notizie si concretizzino, resta il fatto che, mini ritocchi a parte,  l’incremento mensile è contenuto per tutti: parte intorno ai 2 euro lordi per gli assegni più bassi, per poi crescere anche se non in modo continuo. Senza dimenticare che gli “aumenti” sono tassati,  una pensione di 1.200 euro avrà una maggiorazione mensile di circa 4 euro, una di 1.500 intorno ai 5.

Intanto, per la cronaca, nella vicina Francia continuano le proteste contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron, con manifestazioni di piazza in tutto il Paese con il coinvolgimento di tutte le categorie di lavoratori che si oppongono soprattutto alla misura detta “dell’età dell’equilibrio” cioè il raggiungimento dei 64 anni che nelle intenzioni del governo dovevano essere necessari per ottenere la pensione a tasso pieno. Ma quella è la Francia…