L'INTERVISTA |
Cronaca
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12 dicembre 1969. A 50 anni dalla strage di piazza Fontana, il racconto dell’ultimo magistrato che indagò sul caso: il procuratore aggiunto Grazia Pradella

12 dicembre 2019 | 08:02
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Dal falso della pista anarchica alla scoperta di un archivio parallelo. La storia della “madre di tutte le stragi”. Per non dimenticare

Sono le 16,37, quando un boato interrompe i lavori. E’ una bomba. Un ordigno ad alto potenziale esplosivo che uccide all’istante 14 persone. I feriti sono oltre 90, di questi tre perderanno la vita. Chi entra nel salone, subito dopo l’esplosione, trova una scena apocalittica: una voragine ha inghiottito parte del pavimento del salone, tavoli e sedie sono stati sbalzati ovunque, tutti i vetri sono infranti. E poi i corpi, smembrati, roventi. L’odore di bruciato, di carne e sangue, l’odore della morte, della guerra. Sì, perché dalla fine della seconda guerra mondiale in Italia non si era mai vista una violenza simile. Passerà alla storia come la ‘Strage di piazza Fontana’, la ‘madre di tutte le stragi‘, quella che segnerà, in modo irrevocabile uno dei periodi più bui dell’Italia democratica: gli anni di piombo, gli anni della tensione, degli attentati, degli omicidi.

Oggi, a 50 anni di distanza da quel 12 dicembre 1969, abbiamo invitato nei nostri studi il procuratore aggiunto di ImperiaGrazia Pradella che nell’aprile del 1995, quando ricopriva il ruolo di sostituto procuratore della Repubblica di Milano, diventa titolare della nuova e ultima inchiesta sulla strage di piazza Fontana.

Tre processi, 10 giudizi, per un totale di 36 anni tra indagini, udienze, sentenze. Una mole di fascicoli immensa, affiancata alle difficoltà di indagare, per i continui tentativi di depistaggio da parte di alcuni apparati dello Stato, che si possono definire “deviati”. E’ impossibile condensare tutto questo in una lettura di pochi minuti. Ma i 17 morti uccisi dallo scoppio della bomba – una dei cinque ordigni (2 a Milano e 3 a Roma) piazzati quel 12 dicembre – più l’anarchico Giuseppe “Pino” Pinelli, morto precipitando da una finestra della Questura di Milano il 16 dicembre, dopo tre giorni di interrogatorio, meritano di essere ricordati.

Un «momento di riflessione collettiva – dice il magistrato Pradella – su quanto è avvenuto quel 12 dicembre 1969, perché l’Italia è un paese caratterizzato spesso da un vuoto di memoria, non si riflette mai abbastanza su quello che è accaduto affinché non accada più e questo non è ammissibile in una democrazia». Perché un paese senza memoria, aggiunge, «un paese che riesce a ripercorrere in modo sereno le proprie tragedie non riuscirà mai a comprendere veramente i propri limiti». E allora quello che è accaduto, aggiunge, «deve essere conosciuto anche da un punto di vista storico, non solo necessariamente giudiziario, perché non accada più».

E quindi si parte dall’inizio, da quel giorno lontano 50 anni che resta una ferita aperta: uno squarcio della coscienza collettiva così come quella voragine, causata dall’esplosione, ha aperto un solco nel cuore del salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana.

Sono passate poche ore da quel rincorrersi, frenetico, di sirene come impazzite. Ambulanze, auto della polizia, dei carabinieri, dei vigili del fuoco che raggiungono la piazza nel cuore di Milano. Non è trascorso molto tempo da quando tutti i medici disponibili sono stati fatti accorrere in ospedale: tutti in servizio, così come gli infermieri, vista la quantità di feriti causati dall’esplosione. I corpi delle vittime sono ancora calde, quando già si inizia a delineare l’ipotesi che dietro quella strage, così devastante, ci sia la mano di un gruppo di anarchici. Il primo a mentire è il questore di Milano, Marcello Guida, che davanti alle telecamere dei giornalisti accorsi a Milano dice: «Stiamo indagando in tutte le direzioni». Ma non è assolutamente vero. Il capro espiatorio è già stato individuato: è un ballerino squattrinato di Roma, Pietro Valpreda, appartenente a un minuscolo gruppo di anarchici, giunto a Milano con una Cinquecento verde poche ore prima dello scoppio della bomba. E’ lui il colpevole costruito, il killer artefatto, che nulla c’entra – si scoprirà – con la strage. Così come nulla c’entra il ferroviere Pino Pinelli, 41 anni, animatore del circolo anarchico milanese “Ponte della Ghisolfa“, che la sera stessa della strage viene fermato dal commissario Luigi Calabresi e, condotto in Questura, viene trattenuto e interrogato per oltre 48 ore, molto più di quelle consentite dalla legge, e che poi precipita misteriosamente da una finestra, trovando la morte nel cuore della notte tra il 15 e il 16 dicembre. Mente di nuovo, il Questore Guida, quando in una conferenza stampa indetta poco dopo dichiara ai cronisti: «Pinelli si è suicidato». E lo avrebbe fatto, secondo quanto raccontato dal Questore, messo alle strette davanti alle contestazioni a suo carico, dopo che Valpreda ha dichiarato la propria colpevolezza. Altro falso: il ballerino romano, che aveva trascorso le prime ore a Milano in un letto a casa della zia a causa dell’influenza, non ha mai confessato nulla.

A inchiodare Valpreda, tra l’altro, è un “supertestimone”, un tassista milanese, Cornelio Rolandi, che a un colonnello aveva dichiarato di aver trasportato la mattina del 12 dicembre un uomo che, a suo dire, poteva essere l’attentatore. Rolandi viene catapultato d’urgenza a Roma, dove si spostano le indagini. Qui gli viene mostrata una foto: «Questo è la persona che devi riconoscere», gli dicono. E lui la riconosce: è lui, Pietro Valpreda. L’anarchico squattrinato. Il colpevole precostituito. L’ennesima vittima di una strategia stragista che voleva portare in Italia un governo forte, un governo di destra che mettesse fine alla violenza bruta portata da anni di disordine.

Il clima di tensione. «Nel 1969 vi erano due blocchi, quello comunista e quello aderente alla Nato – spiega Grazia Pradella – L’Italia si trovava in una posizione cuscinetto particolare, vicino alla Jugoslavia che aveva un partito comunista definito “moderato” e con al proprio interno un forte partito comunista. Quindi la strategia della tensione, in modo molto semplificato, era finalizzata a creare il terrore per favorire l’instaurazione di un governo autoritario».

«Per quanto riguarda il depistaggio di piazza Fontana, cioè l’arresto del ballerino Pietro Valpreda – continua il procuratore aggiunto – E’ sicuramente stato un atto artefatto. Poi si scoprì che Valpreda come per altro nessun anarchico nulla c’entrava con la strage. Tenete presente che la pista anarchica fu delineata dai vertici della Questura poche ore dopo. Dissero “gruppi di matrice anarchica o anarcoidi (a seconda di chi si esprimeva) hanno fatto esplodere una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura”. In realtà sappiamo poi, attraverso molteplici indagini, che questa pista fu creata per depistare le indagini dai veri responsabili, cioè il gruppo Ordine Nuovo veneto che aveva a Milano un parallelo gruppo sempre eversivo di estrema destra che si chiamava La Fenice. Infatti, i primi tra i primi rinviati a giudizio c’era anche Giancarlo Rognoni che era del gruppo La Fenice».

La pista ordinovista.  E’ un giovane professore, Guido Lorenzon, amico di infanzia di un editore ordinovista, Giovanni Ventura, a portare presso la Procura di Treviso la “pista nera”. L’insegnante ha sentito Ventura vantarsi delle proprie attività eversive. Ha sentito parlare di bombe, di stragi. Ha sentito parlare di Franco Freda. E’ la pista giusta. Ma la verità giudiziaria non coinciderà con quella storica. Nel giugno 2005 la Corte di Cassazione stabilì infatti che la strage fu opera di «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine nuovo […] capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura». Ma questi ultimi non sono più perseguibili in quanto precedentemente assolti con giudizio definitivo dalla Corte d’assise d’appello di Bari.

Il ruolo dello Stato. «Le indagini furono in prima battuta seguite, a livello di polizia, dall’Ufficio Politico della Questura di Milano – spiega il procuratore aggiunto Grazia Pradella -. L’ufficio politico aveva continuità e continui contatti con l’ufficio Affari Riservati che poi diventerà Sid e poi Sisde: cioè i servizi di sicurezza». E ancora: «A Milano, in quell’epoca, lavorava una squadra, che si chiamava “Squadra 54”, di cui faceva parte anche tale maresciallo Alduzzi, che interrogai personalmente, e venne fuori che la velina che indicava i responsabili della strage nel gruppo anarchico del Ponte della Ghisolfa era completamente artefatta, cioè non corrispondeva in alcun modo alle indagini che in quel momento si stavano seguendo. Per questo sia io che il collega Massimo Meroni che il procuratore Francesco Saverio Borrelli avevamo posto molta speranza nella ricerca e nella perquisizione di quello che è stato chiamato “archivio parallelo di Federico Umberto D’Amato e Silvano Russo Manno”, che erano rispettivamente il capo e il vice capo dell’ufficio Affari Riservati e poi del Sid. Era un archivio dove vi erano migliaia di veline, che raccoglievano anche fatti di minore importanza, tutte fascicolate giorno per giorno. Ma quando arrivammo al mese di dicembre, con grande delusione, scoprimmo che mancavano i fascicoli dal 12 dicembre, giorno della strage, al 16 dicembre, cioè il giorno della morte di Pinelli. Quindi mancavano per noi gli atti ritenuti fondamentali e questo fu un motivo di forte delusione e di rallentamento delle indagini».

La scorta. Nel corso delle indagini e durante il processo, gli ostacoli per chi cerca la verità aumentano. L’allora sostituto procuratore Pradella riceve centinaia di minacce. Quello che sta facendo dà fastidio. Siamo nel 1995, sono passati quasi trent’anni dallo scoppio della bomba, ma la verità deve rimanere nascosta. Al giovane magistrato viene assegnata la scorta (che le è stata tolta, dopo oltre vent’anni, solo da pochi mesi, nonostante un furto dalle modalità inquietanti e un’intrusine, di cui non si conoscono gli autori, nel suo appartamento a Imperia). Un momento non certo facile per il procuratore milanese, che sulla vicenda, però, non vuole dire nulla: «E’ stato un periodo molto duro sotto il profilo personale, ma io non voglio parlare di questo in questo giorno, ci sono stati 17 morti più il decesso dell’anarchico Pinelli che in questo momento meritano il nostro ricordo, le nostre riflessioni, il nostro tributo».

Il ruolo di Delfo Zorzi, misterioso poliglotta miliardario, rinviato a giudizio. «Delfo Zorzi chiese di essere sentito»,  ricorda la Pradella. Il suo non fu quindi un interrogatorio, ma venne ascoltato per rilasciare quelle che, in gergo, si chiamano “spontanee dichiarazioni”. «In quel momento, il procuratore D’Ambrosio decise che fosse opportuno che io lo sentissi. La condizione sine qua non, (dettata dallo stesso Zorzi) era quella che lo sentissi a Parigi, in ambasciata, quindi in territorio neutrale, dove non avrebbe mai potuto essere arrestato. In realtà non è stato un atto particolarmente utile perché, malgrado io abbia cercato di fargli delle domande, sono stati tre giorni in cui ha parlato solo di se stesso. Posso solo dire che si è trattato di un incontro che mi ha creato un qualche imbarazzo: immaginatevi un pubblico ministero quante domande vorrebbe porre a una persona indicata come partecipe alla strage di piazza Fontana in quel momento».

Continua il magistrato: «Delfo Zorzi era all’epoca cittadino giapponese con il nome di Roi Hagen, cioè Croce Uncinata. La cittadinanza giapponese viene data rarissimamente, all’epoca mi sembra che l’avessero solo cinque europei. Era un uomo dalle disponibilità economiche enormi, aveva un vero e proprio impero finanziario, tanto è vero che con me, a Parigi, venne anche il collega dell’omicidio Gucci perché lo voleva sentire in quanto nel giro di una notte aveva prestato una somma ingentissima al gruppo Gucci per sollevarlo da una momentanea crisi economica. Zorzi è una persona che conosce cinque lingue, che ha agganci commerciali, o almeno così mi ha detto, in tutto il mondo, all’epoca parecchi a San Pietroburgo». L’uomo perfetto, insomma, per i servizi segreti.

L’ultimo processo.Carlo Maria MaggiDelfo ZorziGiancarlo RognoniCarlo Digilio: quattro neofascisti che il pm Grazia Pradella ha rinviato a giudizio con l’accusa di strage il 21 maggio del 1998. In tre furono condannati all’ergastolo in primo grado e poi assolti. «Ho rinviato a giudizio per la strage di piazza Fontana tutti e quattro e Carlo Maria Maggi e Dello Zorzi anche per la strage della Questura di Milano (17 maggio 1973, ndr). Tutti i processi di primo grado si sono conclusi con la condanna all’ergastolo, poi c’è stata l’assoluzione per entrambi i casi in Appello, assoluzione per motivi di natura tecnica, e cioè principalmente non è stato ritenuto sufficientemente corroborato il compendio accusatorio delle dichiarazioni dei cosiddetti collaboratori di giustizia, in particolare di Carlo Digilio – dichiara il magistrato -. Certamente è stata una delusione, più che professionale da un punto di vista storico: perché da questo punto di vista è acclarato che non solo i predetti sono stati condannati in primo grado, ma io all’epoca formulai il capo di imputazione in concorso con Freda e Ventura non più giudicabili perché definitivamente assolti a Catanzaro e a Bari. E’ chiara la ricondubilità della strage al gruppo ordinovista veneto, padovano e mestrino, con le tante domande che suscitano i contributi alla strategia della tensione alle teorie stragiste fornite da apparati, a mio giudizio deviati, dello Stato».

L’unica condanna. «Il colpevole c’è, è Carlo Digilio che è stato condannato. Io credo che come per la strage della Questura, l’esecutore materiale che si professava anarchico era in realtà legato a gruppi neofascisti veneti. I responsabili ci sono. Noi dobbiamo pensare che la giustizia rispetto alla storia ha tempi diversi e ha soprattutto metodi diversi. Le indagini sulla strage di piazza Fontana in teoria potrebbero interessare storici e continuare per anni. Noi avevamo dei termini precisi per la scadenza delle indagini preliminari e così è stato per il dibattimento. La verità storica e la verità giudiziaria purtroppo non sempre coincidono e questo è uno dei casi».

[12 dicembre 1969 – 12 dicembre 2019: a distanza di 50 anni, questo è il contributo di Cuneo24.it per non dimenticare].