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Barolo e letteratura: Domenico Clerico & l’ Aeroplan Servaj

12 maggio 2019 | 16:14
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Barolo e letteratura: Domenico Clerico & l’ Aeroplan Servaj

“C’è chi dice di sentire spesso un lontano rumore di aeroplano senza però scorgere la sagoma di alcun oggetto in volo…”

Ultimamente sto spaziando da studi sulle fermentazioni e i benefici che esse portano, a letture più tecniche su come sia nata la vita sulla terra e di come esistano ancora in ambienti a noi inaccessibili i nosti antenati chiamati “estremofili”, affascinato da come siano in grado di vivere e riprodursi in assenza di ossigeno e luce vivendo a temperature tra i 75˚ e i 95˚.

Questo mi ha riportato a riflettere sul legame che abbiamo con il nostro passato (evoluzione, epigenetica) e di quanto tutto sia condizionato dall’ambiente che ci circonda. MA ASPETTATE IO DEVO SCRIVERE DI VINO … & COSI SIA. Vi parlo di un vino in particolare che riassume questo legame cosi forte: Aereoplan Servaj di Domenico Clerico.

Barolo che nasce da viti di circa 25 anni, nebbiolo 100% di serra lunga d’Alba, sempre equilibrato, morbido, pronto da bere già dopo 6 anni ma capace di esplodere in bocca se si aspetta almeno il doppio. Affinamento in barrique per 24 mesi (30% nuove).

Ma c’è un modo migliore di raccontarlo. Come lo propone la cantina di Domenico Clerico, con questa poesia, impressa a fuoco sul retro della confezione.

“C’è chi dice di sentire spesso un lontano rumore di aeroplano senza però scorgere la sagoma di alcun oggetto in volo. Altri dicono che è solo il ronzio continuo e sommesso dei trattori che percorrono avanti e indietro le colline di langa. Qualcuno giura che sia solo il brontolio di un maestro di vino scorbutico, mai pronto ai facili compromessi. Nessuno forse saprà mai la verità. Io però credo fortemente che tra le vigne aleggi davvero uno spirito libero, capace di volteggiare sopra le piccolezze umane. Uno spirito libero che cosce la fatica e che ama la sua terra anche quando le mani si screpolato e la schiena si piega dolorante. Esiste una leggenda che racconta di un bambino mai cresciuto, che ha sempre voluto volare senza regole, selvatico nell’anima e nel cuore. Forse nessuno l’ha mai visto veramente o, meglio, nessuno è mai stato in grado di riconoscerlo o ha mai voluto credere nella sua esistenza

Lui sa mimetizzarsi molto bene e nel mondo di oggi riesce facilmente a passare inosservato. Ma ogni leggenda ha un fondo di verità. E a me questa sembra proprio vera. Riesco a credere e a sognare che vi sia ancora un fanciullo il cui amore per la natura e per i valori umani più profondi non sia stato scalfito dalle sofferenze subite in tanti anni di lavoro rude e sincero. Un bambino cresciuto fisicamente, ma rimasto ingenuo, capace di sopportare le tragedie con rassegnazione e le fortune con umiltà. I suoi piedi sono profondamente radici al suolo, quasi fossero anch’essi radici contorte che lottano con le dure marne sottostanti. Le sue mani sfiorano con tenerezza e con vigoria i grappoli a cui vorrebbero trasmettere ancora più forza e tenacia. Sembra creatura plasmata con la terra e quasi parte integrante della roccia sotterranea. Sembrerebbe impossibile staccarlo dal suolo. E invece, quando è solo e nessuno può notarlo, si alza con estrema facilità e comincia a volare tra le colline. Allora è finalmente felice. Volteggia e descrive traiettorie impossibili. A volte sfiora le foglie dei vigneti per poi passare a grande velocità tra le merlature dei castelli. Sale sempre più in alto fino a vedere le cascine come piccoli puntini nel verde, senza più identità. Si sofferma un attimo a guardare e a gioire della prezza che a quelle altezze sembra pervadere tutto, uomini e cose.

Poi, con dispiacere, ripiomba in basso e poco alla volta le meschinità e le bassezze tornano ad assumere i loro ben noti contorni. Quella è la realtà e bisogna conviverci. Ma più tardi… adesso è bello continuare a volare come un aeroplano senza rotta e senza pilota,

Un aeroplano selvatico e libero. E poco importa se il suo rombo si sente da ontano. Nessuno riuscirà mai a scoprirlo. (…) “ Da un racconto di Vincenzo Zappalà